Empyrium – “Weiland” (2002)

Artist: Empyrium
Title: Weiland
Label: Prophecy Productions
Year: 2002
Genre: Dark Neo-Folk
Country: Germania

Tracklist:
1. “Heidestimmung I: Kein Hirtenfeuer Glimmt Mehr”
2. “Heidestimmung II: Heimwärts”
3. “Heidestimmung III: Nebel”
4. “Heidestimmung IV: Fortgang”
5. “Heidestimmung V: A Capella”
6. “Heidestimmung VI: Nachhall”
7. “Waldpoesie”
8. “Wassergeister I: Die Schwäne Im Schilf”
9. “Wassergeister II: Am Wasserfall”
10. “Wassergeister III: Fossegrim”
11. “Wassergeister IV: Der Nix”
12. “Wassergeister V: Das Blau-Kristallne Kämmerlein”

“Qui, tutte le canzoni rombano, dopo essere state in ansioso silenzio sui boschi e sulle montagne. Tutte le voci della natura vibrano dalle sue corde, poi l’eco le avvolge tutte, e sorge come un unico potente accordo…”

Il tripartito timbro aureo con cui gli Empyrium sigillano con ceralacca una pesante eredità musicale, concettuale, letteraria e più in generale artistica maturata in un ciclo durato solo otto anni, ma già nel 2002 foriero di sfaccettature ed evoluzioni delle più complete quanto coerenti, è il manifestarsi in musica di un canto del cigno che invero è quanto di più lontano dalla morte intesa come cessazione delle funzioni biologiche; non tanto per l’insperata resurrezione che fra ceneri scintillanti sarebbe avvenuta dopo un intervallo di dodici anni, tanto lunghi quanto trascurabili per un progetto dalla personalità così marcata dal non poter subire realmente il passare del tempo, ma per un “Weiland” che è manifestazione aurale del più totalizzante abbandono mistico fra gli effluvi di un sentimento naturalistico tanto intensamente e visceralmente percepito. Nella suggestione di una trascendenza inseguita sotto l’egida chiaroscurale e liminale a cavallo tra mondo estremo e più sincero folklore, continua qui quella che è ricerca febbrile e titanica di un nuovo individualismo che passi non per l’affermazione del sé ma nella sua rilettura di un panteismo personale e multiforme: in bilico tra l’incontro segnante e cruciale con la solitudine e la conseguente scoperta di quelli che sono gli spiriti di luoghi ormai inesplorati, rifuggiti, temuti, incontrati e infine abbracciati in un intrecciarsi dialogico fra la Norvegia dei più illustri canti del crepuscolo e dell’epifanico “life has a new meaning”, un contesto Prophecy Productions che -già terreno fertile e famigliare della band- proprio in quegli anni vive un infittirsi graduale di proposte trasversali ed intergenere fra Tenhi, Of The Wand And The Moon e Dornenreich, per finire con un sentimento di germanicità che sempre più emerge in tutto il suo carattere umbratile ma intenso ed emozionale; struggente, in quel calore instabile che è l’affanno emotivo del più autentico fervore romantico.

Il logo della band

Che le carezzevoli e dolorose note di “Where At Night The Wood Grouse Plays” fossero tutto ma non una fugace escursione acustica e che, al contrario, indagassero con uno spirito forse mai prima di quel momento tanto intimista, solitario e riflessivo quelli che erano stati gli intenti già pregressi della band, è chiaro sull’estremo finire dello scorso millennio a chiunque avesse seguito negli anni i passi di Schwadorf; vero è che il richiamo notturno del nostro si esprimeva nel momento inedito di separazione dal compagno Andreas Bach, con lui dagli esordi fin dal lontano 1994, a favorire un’indagine personale e individualistica quasi meditabonda, che sotto i graffiati e illuminanti tratti di un Theodor Severin Kittelsen mentore spirituale potesse dare forma a quelle interconnessioni cultural-estetiche fino a quel momento rimaste solo sfuggenti e diluite, in un primo tentativo per nulla forzato di esaltare un certo tipo di retroterra. Certo, anche quello non è un percorso strettamente solitario, ma il flauto traverso di Nadine suona nel 1999 come coronamento finale di un paesaggio già descritto, e le cavernose e avvolgenti movenze di Helm trovavano lì solo un primissimo scorcio nel sottobosco della formazione, in funzione di un approccio in cui il vero esoscheletro dell’opera è finalmente quel sognante cerchio di corde pizzicate.
Proprio quelle sei corde acustiche sono il frutto sonoro di un’essenzialità che diventa cifra stilistica dalla quale allontanarsi in “Weiland” senza brusche rotture, senza consapevoli e contrarie reazioni, ma con l’organica ed evoluta riappropriazione di alcuni di quegli elementi che nel processo di riduzione ai minimi termini erano stati raschiati via, in comunione con un approccio che dal più ricercato minimalismo Neo-Folk possa infine protendersi in una complessità e un’eleganza corale più vicina alla musica da camera e in una densità strutturale persino più stratificata del bellissimo “Songs Of Moors & Misty Fields”: pur ancora privo della strumentistica elettrica Metal, il quarto capitolo dell’empireo tedesco in musica assume, insomma, nel nome di una maturità artistica nel 2002 ormai indubbiamente raggiunta e consolidata, una varietà tonale capace di dipingere con continuità e medesima vividezza ma usando le forme della semplicità come quelle più intrecciate di dialoganti, ricche strutture dalla potenza mai così teatrale ed evocativa.

La band

La raffinata complessità e la tridimensionalità di suono di cui infatti i tre grandi spaccati selvaggi o capitoli dell’album si compongono sono, nel modo in cui si percepiscono, inediti e tangibili in tutto il loro spettro emozionale: fra una base ritmica di nuovo solida, inserita intelligentemente a rimarcare un pathos che ghermisce e affanna nelle sezioni più drammatiche e mai una volta sembra minare l’equilibrio delicatissimo della canzone, e un approccio più propriamente classico in cui il vario polistrumentismo non è mai sterile inclusione ad orpello, ma sempre contrappunto organico o nuova linea testuale in perfetta concordanza con il resto dell’orchestrazione, “Weiland” suona dalle prime movenze come espressione di una paganitas intesa nel più ampio dei modi; tanto in quel sentore eteno e leggendario, quanto nella più latina accezione che ne esalta il lato pastorale e misticamente arcadico.
Proprio tra gli spiriti sacrali e aleggianti degli antichi padri a contrastare le artigliate della solitudine di una spietata brughiera comincia il viaggio degli Empyrium: uno svuotamento dell’anima che coincide con l’arrivo di un nuovo e gelido inverno che, tuttavia, suona caldo e avvolgente grazie ad un animo volto all’osservazione del mistero che un’introduzione come “Kein Hirtenfeuer Glimmt Mehr” suggerisce; e che sembra trapiantarsi con curiosità in luoghi inesplorati, mondi di sopra e mondi di sotto, tra i fiati carezzevoli presto avvolti dalla gracchiante atmosfera di un mellotron a disvelare subito un approccio nei confronti dal suono sporcato di influenze Darkwave. Così un Thomas Helm si fa vero e percepibile membro integrante della formazione (in uno splendore baritonale che è soltanto la prima e più evidente avvisaglia del suo apporto alla scrittura), intento a duettare tanto con i sussurri di Markus Stock quanto con le potenze elementali che nella narrazione si fanno personaggi del racconto, come il vento che in “Heimwärts” diventa protagonista nonché bambino che sposta con irrazionale capriccio le cortine di nebbia a disorientare i viaggiatori; e con un Black Metal che sopito nei termini emerge tuttavia, sfumato e disciolto ad arricchire stilisticamente la tavolozza dei colori e delle soluzioni compositive, serpeggiante nel minimalismo svuotante di “Nebel” e incastrato tra i vocalizzi magici di “Fortgang”, gli Empyrium dimostrano di essere andati ben oltre qualsivoglia tipo di costrizione formale autoimposta e non temono in alcun modo di mettere a nudo, seppur nella foggia più adatta al contesto, una propensione strutturale e ritmica che senza distorsione di sorta rimanda direttamente al lato più estremo e oscuro del progetto.
“A Capella” e “Nachhall”, nella loro preziosa brevità, salutano un’ultima volta quelle piane sacre ammollate di acquitrini, per addentrarsi nel pulsante cuore di una “Waldpoesie” che è complesso e intricato labirinto dai cupi e minacciosi colori, palcoscenico di una tragica lotta umana e spirituale: il confronto con l’oscurità e la paura, con ciò che fra rimbalzi sinistri di fagotto e rumori notturni di una foresta disturbata assume le sembianze del Maligno stesso. In una natura che quindi, nella perdizione notturna, da madre non si fa soltanto matrigna e bensì assume gradualmente tratti a noi del tutto sconosciuti, terribili in quanto ignoti e sfuggenti, si rincorrono le voci cariche di tensione di uno Schwadorf che con trasporto e sensazioni saettanti assume i panni del più disperato viandante. La vicissitudine dai toni quasi teatrali del bellissimo brano, uno dei più lunghi e complessi mai partoriti dalla formazione (nonché un vero manifesto poetico ve ne potesse essere uno soltanto) si protrae nel suo avvicendarsi carico di intensità anche nell’ultimo capitolo dell’opera, che si apre difatti in un’intrecciarsi di umori che è ultima e reale avvisaglia di tratto umano: la straziante “Die Schwäne Im Schilf” è l’ultimo contatto tragico e doloroso fra il lato più materiale e quello più naturalistico e divino; definitivo preambolo di un abbandono ad una liquidità vitale e sacrale in cui le pelli cedono definitivamente il posto agli archi, e in soli dieci minuti si susseguono immagini che sono visioni di storie che a loro volta si perdono nella notte dei tempi e si confondono fra i luminosi flutti delle cascate, quella dell’instancabile violinista “Fossegrim” a dell’immortale e mutaforme ammaliatore “Der Nix”.

E mentre “Das Blau-kristallne Kämmerlein” chiude un sontuoso viaggio concedendo requie e oscurando quella luce tanto ammaliante quanto beffarda nel confondersi con gli spiriti della natura, le sensazioni che il tenue riverbero solare sospeso fra i rami dei pini che “Weiland” deposita in chi ha orecchie per ascoltare sono quelle di un indubbio punto di arrivo: se “Where At Night The Wood Grouse Plays” si percepisce, quantomeno tecnicamente e strumentalmente, come un punto di rottura, il disco d’oro del 2002 suona come una commistione di stili e soluzioni che nella sua magia e nella sua enorme unicità rappresenta alla perfezione ciò che gli Empyrium ancora oggi sono.
Eppure, al contempo, il potenziale grandioso che questa formula serba in sé grida a gran voce la necessità di una nuova evoluzione: s’è vero che per ascoltare un nuovo disco del duo si sarebbe dovuta attendere più di una decade, gli influssi di un nuovo modo di amalgamare il background Metal con attigue suggestioni folkloristiche, sempre nel nome di un’eleganza espressiva componente cruciale per la buona riuscita del processo, si allargarono invece e progressivamente a macchia d’olio negli anni immediatamente successivi: risuonano tra le basi serpeggianti di un’atmosfera intesa in senso nuovo e che, in combutta con gli Agalloch (che proprio nello stesso anno 2002, dopo l’esperimento “Of Stone, Wind And Pillor”, avrebbero rivelato il loro lato maggiormente Neo-Folk nel celebratissimo “The Mantle”) e con i prossimi compagni di label Alcest, avrebbero aperto a nuove possibilità; tanto nella classe acustica a mutuare in modo delicato i drammi lancinanti di Nasheim e October Falls, o nell’approccio operistico e aperto in funzione di un’ottica escapista degli Aquilus, quanto nella poliedricità di quelli che diventeranno i connazionali Mosaic.
Il quarto album degli Empyrium spicca, insomma, più che come lanternino da inseguire, come un luccichio balenante di autenticità, personalità ed espressività artistica: un’opera finemente intrecciata e costruita, che mette a nudo l’essenza più pura e primigenia alla base del progetto, e che racchiude parimenti in sé i frutti dell’accettazione di un percorso costellato di sofferenza e nostalgia; in bilico fra il dolore dell’ascesi e il fascino dell’ignoto. Ma sempre e costantemente in una Naturmystik tedesca che spaventa, ammalia, commuove e rapisce: un po’ come quegli spiriti dell’acqua che reclamano i loro sacrifici sotto le mentite spoglie del più gentile ed elegante dei bianchi destrieri.

Lorenzo “Kirves” Dotto

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